La lanterna di Diogene
Ci delizia subito una scrittura frizzante, briosamente arguta e civettuola, di quelle che una volta nate continuano a crescere con il tempo senza mai annoiare, fresche sempre, deliziose e gradite alla mente e al sentimento: “Con prepotenti squilli mi diedi ad avvertire la gente del mio passaggio, e la gente mi guardava”. Lasciare Milano è mettersi dietro le spalle la pesantezza della civiltà, il suo buio colore, il suo olezzo quasi di morte. Bellaria si configura già come una meta liberatoria, un ritorno alla purezza originaria: “una freschezza forte e giovane mi alitò nel cuore.” L’autore è sulla soglia dei quarant’anni quando inizia questo viaggio. Attraverserà paesi e città: Lodi, Piacenza, Parma, Reggio, Rubiera, Modena, Pavullo, Lama Mocogno, Abetone, San Marcello Pistoiese, La Porretta, Savignano, San Mauro, il paese in cui nacque Giovanni Pascoli, Ravenna, Mandriole, dove in una fattoria morì Anita Garibaldi, Comacchio, e taluni luoghi gli ispireranno quadretti di vita rustica e riflessioni e considerazioni quando ironiche, quando pensose, quando ariose e sorridenti. Valga per tutti l’esempio di Comacchio. C’è tanta luce, infatti, e tanta letizia in buona parte di questo viaggio, che procurano al lettore continue sensazioni di giovinezza e di libertà: “l’umile duro pane, spezzato presso qualche osteria di campagna, mi parve saporito più di ogni ricercata vivanda. Perché io evitai le città, né mi fermai in esse: le grigie mura mi avrebbero ricordato le morte età, le vane opere delle generazioni umane. Oh più sapiente tu, o Terra! Tu riassorbi ciò che, da te prodotto, si muore, e ne ricomponi le giovani primavere.”
Si può notare, disseminata qua e là, qualche sbavatura retorica o professorale, ma l’insieme resta compatto e assai piacevole ancora oggi. Ove si pensi che l’opera nacque in mezzo ai frastuoni dei molti movimenti letterari dell’inizio del Novecento, la sua sobrietà fa pensare ad un vero e proprio miracolo. Un esempio della gradevolezza in cui l’autore sa mantenere i confini della sua retorica può essere dato da questo brano, scelto tra i tanti: “Nel breve tragitto dalle Stiviere a Modena quante deliziose ville occultate nel verde dell’ubertosa campagna, come ninfe entro i boschi! Che lieto mattinare degli uccelli per i giardini silenziosi!”
L’amor di Patria è uno dei segni distintivi di questo viaggio. Una testimonianza evidente la si coglie allorché ammira la bella Modena: “Questa piccola Italia, se ci mettiamo a studiarla secondo geografia, diventa grande come un continente; e se ci mettiamo a studiarla secondo storia, quest’umile Italia diventa superba come un impero.”
Ma subito dopo ecco la sua stoccata, una delle tante: “La materia è vasta; ed è forse per questo che gli studi della storia e della geografia nazionale sono accuratamente evitati.”
Ci accorgiamo così che il viaggio di Panzini vorremmo farlo anche noi per constatare quante vezzosità e armonie da lui incontrate (“magnificenza delle cose presenti e viventi”) in quei lontani anni abbiano resistito nel tempo oppure siano scomparse lasciando il posto ad una modernità oscena, senza pudore e senza misura. Amara, tuttavia, sarebbe la inevitabile constatazione che è stato il peggio ad avanzare e a sconfiggere il bello. “La lanterna di Diogene” assume, in realtà, la valenza di una testimonianza malinconica lasciataci da un uomo che già prevedeva le conseguenze nefaste delle nuove scoperte e delle nuove invenzioni, ammaliatrici e ingannevoli.
Bartolomeo Di Monaco
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