Terra Separata – Sotto la cenere dell’Apartheid
Le città si risvegliavano sotto cieli lattiginosi, avvolte da un silenzio che odorava di bruciato. Un silenzio vigliacco, interrotto a tratti dal gracchiare di una radio, dai colpi di fucile nella notte, o dal canto dei lavoratori che uscivano dalle baracche di lamiera prima dell’alba.
In quelle ore, ogni passo aveva un suono diverso. Quello dei piedi scalzi sulle strade di terra battuta. Quello dei tacchi decisi che risuonavano tra i corridoi delle università bianche. Quello esitante di chi portava in tasca il permesso di soggiorno interno, e temeva che non bastasse.
Tre vite, tre città, tre pelli diverse.
Una ragazza nera camminava a testa alta verso la sede clandestina del sindacato, con le mani vuote e la memoria piena di nomi che non si potevano più pronunciare. Ogni giorno era una sfida al tempo: quante ore prima che la arrestassero? Quanti giorni prima che il suo nome finisse su un elenco da bruciare?
A centinaia di chilometri, un uomo bianco sedeva nel retro di una libreria indipendente, bevendo caffè annacquato e leggendo un testo proibito. Una poesia. Un trattato di giustizia. Aveva imparato a parlare da solo, a rispondere solo dentro, per non farsi tradire da quella voce che tremava. Era stanco, ma sapeva che la stanchezza dei colpevoli non valeva nulla.
In un’altra città, una giovane donna dai capelli scuri e dalla pelle ambrata strappava lentamente una fotografia in sei pezzi. Non per rabbia. Per necessità. Erano gli occhi di suo padre, nella foto. E lei non sapeva più da che parte stare: dalla parte della legge, o dalla parte di chi la legge la stava abbattendo a mani nude.
Nessuno di loro conosceva ancora gli altri. Eppure, già allora, qualcosa li univa: il sospetto di vivere in un Paese morto che ancora camminava. Un Paese diviso non solo dal colore della pelle, ma da parole che non si dicevano, da paure antiche, da promesse infrante troppo presto. Qualcuno diceva che la libertà sarebbe venuta. Altri avevano smesso di aspettarla.
Ma per chi ascoltava bene, nelle notti di Soweto, tra i muri scrostati di District Six o nei mercati di Grey Street, la libertà aveva già un suono. Non era un inno, non era un discorso. Era una voce sussurrata:
“Vedi quella crepa nell’asfalto? È da lì che passeremo.”
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